Cosa è il Jazz: un richiamo d’amore creolo (cit. Ellington)

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Partiamo da questo brano meraviglioso, opera di uno dei più grandi compositori del Novecento, Duke Ellington:

Adelaide Hall, Duke Ellington and his Orchestra – Creole Love Call (1927)

Nel 1927 Adelaide Hall cantò questa musica soave con dei vocalizzi senza testo che accompagnavano la musica. Una scelta modernissima e un effetto straordinario, che rende la voce umana uno strumento a tutti gli effetti, in buonissima compagnia (sentite ad esempio l’assolo straordinario alla tromba di Bubber Miley). Come dice il titolo è un canto, un richiamo d’amore creolo. Che ci fa pensare a New Orleans e alle origini interculturali del Jazz, nato dalla confluenza di fiumi e culture diverse, a partire dalle radici Blues afroamericane.

Interessante ascoltare anche questa versione successiva del Duca, senza voce (e quindi a mio modesto parere meno affascinante):

Duke Ellington – Creole Love Call (1932)

Giusto dire, per la completezza, che questa straordinaria composizione era in realtà una reinterpretazione di un tema scritto nel 1923 dal primo King del Jazz, Joe Oliver, leader della King Oliver’s Creole Jazz Band (e il nome non fu scelto a caso).

King Oliver’s Creole Jazz Band:- “Camp Meeting Blues”

Capita in tutta la storia del Jazz che opere precedenti siano prese d’ispirazione per rifacimenti e nuove versioni. Fa parte della grandezza di questa musica e della sua diversità dalla tradizione classica europea.

Ma più che di musica, volevo parlare dell’origine creola di questa musica e del suo significato. Prendo spunto anche dalla lettura di un libro che è stato una bellissima sorpresa e che mi ha aperto molto nuove prospettive, come non succedeva dai tempi della lettura di Blues People del grande Leroi Jones (aka Amiri Baraka), di cui ho già scritto poco fa nel post sulla bibliografia musicale (che trovate più rapidamente attraverso il menù principale che si apre cliccando sul quadrato in alto a destra). L’opera del critico statunitense Eric Nisenson, Blue. Chi ha ucciso il Jazz? (Odoya Ed., scritto in originale nel 1997), al di là della polemica a volte un po’ aspra ed eccessiva con i neotradizionalisti alla Wynton Marsalis (grande musicista, meno grande come critico e organizzatore culturale, ma ne ho già parlato all’inizio di questo blog a proposito del documentario sul Jazz girato da Ken Burns), è illuminante e chiara riguardo alla storia della musica di origine (non solo) afroamericana nel secolo scorso e offre una chiave di lettura importante, legata proprio alla sua creoleness, che lascia poco spazio al purismo musicale e culturale e alla distinzioni basate sul colore della pelle (sia da parte dei bianchi che ad un certo punto hanno “rubato” negli anni ’50 il Blues ai neri, sia da parte dei neotradizionalisti che invece sostengono che solo gli afroamericani sanno cosa è il Blues). Le radici “sporche” nel quartiere a luci rosse di Storyville del Jazz, come anche i contributi arrivati da diverse fonti geografiche (i ritmi spagnoli, il Blues afroamericano, le bande militari francesi, la melodia strumentale degli italo-americani, le fanfare klezmer) rendono questa musica allergica alle categorizzazioni troppo rigide e, come sostiene Nisenson, forse l’approccio migliore è quello di apprezzare i cambiamenti e il movimento incessante di ricerca che ha animato i migliori esponenti musicali fin dai tempi di New Orleans. I musicisti migliori si valutano in base alla qualità musicale, non sulla loro provenienza. Quando ad esempio Django arrivò negli States, ottenne dai colleghi, anche dai più importanti jazzisti neri, grande stima e collaborazione. Senza dimenticare che questa musica nasce dal bisogno di libertà di un popolo schiavizzato paradossalmente proprio nella “patria della libertà”, Nisenson ricorda come anche artisti “arrabbiati” come Miles Davis o Charles Mingus abbiano apprezzato le collaborazioni musicali a prescindere dal colore della pelle dei componenti delle loro formazioni. Lo stesso vale per i più grandi dello Swing come Goodman e Krupa, che nel momento in cui il Jazz arrivava alle masse bianche (e al successo commerciale) non hanno dimenticato coloro da cui quella musica proveniva e hanno creato i primi combo misti dal punto di vista etnico, anche a costo di suscitare scandali, turbolenze e arresti in una nazione ancora fortemente segregazionista e razzista.

Concludo in musica come sempre il mio ragionamento, proponendo alcuni ascolti che credo significativi. Sentiamo ad esempio colui che addirittura sostenne di avere inventato il Jazz, il creolo di New Orleans Jelly Roll Morton, alle prese al piano con ritmi e strutture proprie della musica latina (che in particolare nella versione caraibica ha avuto molta influenza sullo Swing al tempo delle big band):

The Crave – Jelly Roll Morton (Original Version)

Oppure uno dei concerti più importanti del secolo scorso, quello che nel 1938 Benny Goodman con tanti straordinari ospiti tenne alla Carnegie Hall. Ecco un brano in cui lui e il trombettista Ziggy Elman, pure di origini ebraiche, ad un certo punto (2’33”) trasformano questa stupenda canzone (tratta da un musical yiddish), in una festa mitteleuropea, proprio nel tempio della musica classica newyorchese:

“Bei Mir Bist Du Schoen” by Benny Goodman from Live At Carnegie Hall 1938 Concert on Columbia

Ringraziamenti per l’attenzione e cordiali saluti a tutti!

🙂

Mazz Jazz (aka Professor Bop)

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Correva l’anno di grazia 1956

Sono molti gli anni del secolo scorso che hanno segnato la storia della musica di origine (non solo) afroamericana. Il 1956 (anno conosciuto anche per gli avvenimenti di Ungheria e le ripercussioni che ebbe nel comunismo mondiale) fu senz’altro tra questi. Scelgo di parlarne oggi perché rappresenta nella maniera migliore la varietà e la ricchezza della musica Jazz (e di tutto ciò che è spuntato dall’Albero del Jazz e del Blues), con l’apporto di stili diversi che, al di là delle periodizzazioni necessarie per scrivere i libri di storia, hanno convissuto e non di rado collaborato, per generare nuovi ibridi e nuove musiche. Ecco allora una veloce carrellata attraverso alcuni degli album più importanti registrati nel magnifico e lontano 1956.

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Punto di partenza l’esibizione di quell’anno al Festival di Newport da parte di una delle più grandi orchestre di tutti i tempi, la formazione capitanata da Duke Ellington. Fu infatti quel concerto (e questo disco At Newport che lo testimonia) durante il più celebre festival estivo del Jazz a rilanciare la carriera di Ellington e a mantenere in vita fino alla fine dei suoi giorni l’attenzione sulla sua grande musica, aliena da qualsiasi ristretta categorizzazione. Come si può sentire in questo album, la qualità degli strumentisti, degli arrangiamenti e della direzione di Ellington garantivano ancora energia Jazz al 100%, ammirata e apprezzata sia dai cultori del passato tradizionale, che dai modernisti (con cui il Duca, che veniva dai primordi della nostra musica, collaborò spesso e volentieri).

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Ma il 1956 fu anche l’anno in cui fu pubblicato il primo capolavoro storico di quello che è attualmente considerato il più grande jazzista vivente: Sonny Rollins. Il suo sax tenore canta in questo album intitolato in maniera esplicita Saxohpne Colossus, in cui è accompagnato da un quartetto in cui alla batteria troviamo Max Roach. Anche le altre registrazioni di quell’anno mostrano un musicista giovane, ma già in grado di raggiungere i vertici del Jazz moderno con i suoi assoli e le sue improvvisazioni, sia su standard come Moritat che su sue composizioni (come la famosissima St. Thomas, ispirata dall’origine caraibica della sua famiglia). Tra queste ultime, propongo un ascolto da questo disco, che racchiude tutta poetica di questo grande artista:

Sonny Rollins – “Blue 7”

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Proseguiamo citando un grandissimo artista, che nel 1956 non solo pubblicò alcuni favolosi album, ma perse anzitempo la vita, lasciando un vuoto enorme nella musica Jazz del Novecento, di cui fu tra i migliori interpreti alla tromba. Questo album dal vivo del quintetto di Clifford Brown (accompagnato da Max Roach e Sonny Rollins tra gli altri) tocca i vertici di quello che è stato chiamato Hard Bop. Ma prima di tutto tocca le corde dell’emozione musicale, grazie alla sua straordinaria tecnica e anima. Forse il meglio del Jazz moderno ancora per tanti anni a seguire, At Basin Street e gli altri dischi registrati con Roach entrano di diritto nel “best of” jazzistico del Secolo Breve.

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Torniamo a qualcosa di più classico, ma non meno appassionante, visto che sempre in quell’anno uscì il primo album registrato da Louis Armstrong ed Ella Fitzgerald per la Verve (seguito poi da altri 2 bestseller). Ella and Louis ci offre una serie di delicate ballate e standard in cui entrambi danno il meglio dal punto di vista del canto e dell’interpretazione. Un ascolto dolce che ha suggellato un’amicizia e una collaborazione tra due artisti non più nel fiore degli anni, ma ancora pieni di immaginazione e voglia di musica.

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Fu il 1956 anche l’ultimo anno in cui Horace Silver fece parte dei Jazz Messengers, la celebre e titolata formazione che aveva fondato insieme al batterista Art Blakey, componendo anche alcuni dei loro maggiori successi nel mondo del Jazz. L’album omonimo The Jazz Messengers è per questo considerato uno dei più importanti nella lunga storia di questa band composta da neri americani, che ha continuato poi ad accompagnare diversi periodi musicali, caratterizzandosi soprattutto per animate e vivaci esibizioni dal vivo.

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Altro album, altra storia importante che prese vita nel 1956. Count Basie inserisce come cantante dell’orchestra più Swing di tutti i tempi Joe Williams, che introduce uno stile molto diverso, in soldoni meno shout e più romantico, del precedente Jimmy Rushing. Il titolo del disco che inaugura la loro collaborazione è tutto un programma e non ha bisogno di troppi commenti: Count Basie swings, Joe Williams sings. Il capolavoro Alright Ok You Win garantì notorietà a questa piccola svolta nell’evoluzione del Conte dello Swing.

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E poi ci fu chi in quell’anno si portò avanti, musicalmente parlando, in direzione di quel che fu poi definito in maniera invero piuttosto generica Post-Bop. Parlo di Charlie Mingus e di uno dei suoi album principali, quel Pithecanthropus Erectus interpretato al sax alto da Jackie McLean, sugli arrangiamenti comunicati a voce di Mingus. Sempre fuori dagli schemi, un album che apre un nuovo capitolo della nostra musica.

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E chiudiamo la rassegna su questo stupendo e intenso 1956 con Lei: Billie Holiday. Che accompagna la sua autobiografia Lady sings the Blues con un album dallo stesso titolo. Troviamo qui alcune sue registrazioni degli anni tra il ’54 e il ’56, per chi come me ha un debole per Lady Day sempre e comunque un’esperienza speciale ascoltare le sue interpretazioni.

Ci fermiamo qui, molti altri potrebbero essere gli album selezionati per il 1956, abbiamo privilegiato uno sguardo ampio e i nostri gusti. Il consiglio ovviamente è di cercare gli originali e comprarli, anche perché la bellezza delle copertine di questi dischi è parte del prezzo (e del gusto di possederli).

Buon ascolto e buone danze a voi dal vostro

Mazz Jazz

🙂