Suonerà forse un po’ eccessivo, ma credo veramente che la lettura di questo libro sia quasi doverosa per chi ama ascoltare e ballare la musica Jazz (e non solo). Credo quindi sia bene recensirlo il prima possibile (è uscito infatti in libreria da pochi mesi).
Un libro che cambia anche la mia attitudine nei confronti di questo mondo culturale e musicale, che fa riferimento alla storia afroamericana. Non userò infatti più termini generici come “musica nera”, “musica bianca”, “voci nere”, “ritmo nero”, ecc… Ringrazio pubblicamente l’autore per avere in maniera così chiara e sintetica affrontato una questione spinosa, lontana da essere risolta in primis proprio negli Stati Uniti, divisi da un multiculturalismo molto poco melt e che anzi tende a separare gli apporti delle diverse culture (come sta facendo anche da parte afroamericana la “politica” culturale di Marsalis, volta a sottolineare solo la parte “nera” del Jazz). Non c’è bisogno spero di ricordare come purtroppo la cronaca di questi anni recenti ci parli di una nazione spaccata sempre più dal razzismo istituzionalizzato (in particolare all’interno delle forze dell’ordine) verso le minoranze.
Il perché è spiegato benissimo in questo libro, scritto da Stefano Zenni, autore che sicuramente va annoverato tra i maggiori esperti di Jazz in Italia e che già nei suoi ultimi libri per Stampa Alternativa ci aveva raccontato la storia di questa musica a livello globale (Storia del Jazz, 2012) e spiegato i segreti nascosti dietro al fascino che esercita su noi tutti (I segreti del Jazz, 2008).
Ora questo Che razza di musica pubblicato per EDT aggiunge un tassello fondamentale, che congiunge la nostra passione musicale alla storia e alla cultura del nostro tempo. Le trappole del colore di cui parla il sottotitolo sono quelle in cui caschiamo tutti, quando crediamo che una tradizione musicale sia qualcosa di chiuso e concluso, essenza di una cultura o di un certo luogo. Il Jazz come essenza della storia afroamericana negli USA, insomma. Un’affermazione che diamo per scontata, ma che ha bisogno di essere approfondita, per capire che in realtà non ha senso inscatolare note e parole che nascono invece proprio dallo scambio e dall’incontro aperto tra lingue e culture differenti (nella fattispecie: gli italoamericani, gli ebrei emigrati negli USA, gli afro-caraibici, i creoli di New Orleans, la musica classica europea). Senza ovviamente smettere di riconoscere il doveroso tributo alla storia dolorosa dei discendenti degli schiavi africani, ma anzi rendendola ancora più ricca proprio riconoscendo come tutte le tradizioni si alimentano con l’apertura e lo s/cambio reciproco. L’excursus attraverso i secoli e i generi musicali, sempre preciso e ben documentato, rende questo breve volume uno strumento utile sia a conoscere di più la musica di origine (non solo) afroamericana, sia a comprendere le caratteristiche costitutive dello stato che volenti o nolenti esercita la maggiore influenza e attrazione anche sull’Europa.
Un messaggio quello che si ricava che come si può capire è anche molto politico e ahimé parecchio attuale, in questo mondo che sembra avere intrapreso una corsa a perdifiato verso la follia e l’intolleranza. Una lettura utile per tutti, ma fondamentale per chi ama la nostra musica.